El Chino si ritira, ritratto del più geniale dei talenti incompresi

El Chino Recoba si ritira dal calcio giocato. Dopo aver vissuto gli ultimi anni di carriera in patria tra trofei conquistati e altre prodezze sfornate dal suo vasto repertorio, ha deciso di appendere gli scarpini al chiodo alla veneranda età di 39 anni. Alla fine, nonostante gli infortuni che lo hanno sempre tormentato e la sua apparente svogliatezza, ha quasi eguagliato l’ex capitano Zanetti, un suo caro amico, ma anche un giocatore estremamente opposto per dinamismo, costanza di rendimento e volontà.

Eppure il suo esordio a San Siro fu leggendario: quando tutti aspettavano un colpo di genio dall’esordiente “Fenomeno” Ronaldo, Gigi Simoni fece entrare dalla panchina questo giovane uruguaiano sconosciuto dai capelli a caschetto. Il resto è storia, con il Brescia annichilito da una  doppietta magistrale del suo mancino, capace già di pulire le ragnatele degli incroci dei pali. Si prospettava un futuro radioso, ma non sempre il famigerato “Chino” riuscì ad essere all’altezza delle aspettative di quell’esordio. Qualche mese dopo arrivò la sua perla contro l’Empoli, un goal da cineteca, da centrocampo, ancora in grado di far stropicciare gli occhi al pubblico interista e di tutta Italia. Lo spazio era però poco e il solo piede fatato non bastava a garantirgli un posto fisso nella formazione dell’allenatore, una costante che si ripeterà spesso nella sua carriera milanese. Il posto che mai perse fu quello nel cuore del presidente Moratti, fine intenditore di giocatori di classe e da sempre avvezzo ai fantasiosi mancini, lui che da bambino, come il padre, parteggiava per Mariolino Corso.

La discontinuità fu la base della sua carriera, ricordata per quelle ombre che avrebbero potuto tranquillamente convertirsi in ricche e dorate luci. Invece è stato più un neon nel momento in cui si accende, un’intermittenza, una cometa visibile solo per i pochi che si imbattevano nel suo cammino. E quei pochi sono stati gli interisti, spesso delusi e scontenti per la sua indolenza sul campo, ma raggianti ed entusiasti per una delle sue pennellate da maestro. Mezza stagione di grande livello al Venezia, compagine che riuscì a salvare con le sue prodezze dal gennaio al maggio del ’99. La sua storia è fatta però di cadute pesanti, dallo scandalo dei passaporti al rigore sbagliato nel preliminare di Champions del 2000 contro l’Helsinborg. E’ fatta di ritorni importanti, come quello del dicembre 2001, quando, tornato dalla squalifica per la suddetta vicenda, compose quel tridente magico con Vieri e Ronaldo che guidò quasi la truppa nerazzurra alla conquista dello scudetto. E’ fatta di attimi di gioia intensa, come quel mirabolante sinistro all’angolino che sancì l’incredibile rimonta dal 2 a 0 contro la Sampdoria, negli ultimi 5 minuti di panchina, propiziata dalle sue giocate. Come quel goal da calcio d’angolo contro l’Empoli nel giorno dei festeggiamenti per il quindicesimo scudetto, sempre la stessa squadra toscana che aveva già battezzato tempo addietro. Uno scudetto che non lo vide tra i principali protagonisti, ma che fu impreziosito da una sua gemma nel momento più limpido e gioioso.

Recoba è stato croce e delizia,  luce e ombra,  genio e sregolatezza, estro e poca saggezza tattica, la controversia fatta giocatore, è stata l’essenza di uno sport in cui un piede stupendo è ancora in grado di impressionare più di una corsa a perdifiato o di un tackle scivolato. Recoba è l’emblema ovvio della prima pazza Inter di “morattiana” memoria e della sua cronica incapacità di sbocciare definitivamente e zittire le critiche e gli scettici ma, al tempo stesso,  dell’indubbia qualità del farsi amare e apprezzare dal proprio pubblico. Forse dovremmo smettere di riferirci a lui dicendo “se fosse stato, se avesse avuto…”, Recoba è stato questo, stop. I suoi sprazzi sono stati abbastanza per lasciarci capire che razza di giocatore fosse, che al posto di un Alvarez, di un Podolski o di un Rocchi avrebbe fatto ancora la sua ottima figura nei recenti anni. Non lo ricorderemo come un Milito, ma spazio nel cuore degli interisti ci sarà sempre. Dopotutto vincere non sempre è l’unica cosa che conta.

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