Ecco l’incipit di “Giocare da uomo”, l’autobiografia di capitan Zanetti

Zanetti Champions“Giocare da uomo”. Non poteva avere un titolo diverso l’autobiografia di Javier Zanetti, che ha raccolto tutta la sua carriera in un libro di duecento pagine, scritto in collaborazione con Gianni Riotta ed edito da Mondadori. Questa la prima anticipazione, con l’incipit riportato da corriere.it:

«E sette, e otto, e nove…». Luis García, il fisioterapista della Nazionale argentina, piega la mia gamba sinistra e conta i movimenti che mi restano da fare. «E uno, e due, e tre…». Seguendo il ritmo di Luis, un uomo minuto, serio, guardo fuori dalla vetrata che circonda la palestra, verso i grandi prati verdi e il bosco fitto di alberi. La luce è chiarissima, un aereo passa alto in cielo, l’aeroporto di Buenos Aires, a Ezeiza, è poco lontano. È mattino presto, fa fresco. In Argentina è ancora inverno, mentre in Europa la gente scappa verso le spiagge e le vacanze, leggendo entusiasta le notizie della campagna acquisti, e il campionato sta per iniziare, le squadre sono in ritiro, i giovani sognano gloria, i veterani tornano in campo sicuri di sé. Calcio pasión de multitudes, passione delle masse dicono qui, nella metropoli di tredici milioni di abitanti dove sono nato e cresciuto, e che quando si gioca una partita dei Mondiali si svuota, strade fantasma dal pittoresco centro del Caminito all’antico porto sul Río de la Plata.

Sono concentrato sull’allenamento, è la mia vita di ogni giorno. Sono famoso fra i tifosi – e vengo preso un po’ in giro dagli amici – perché mi sono allenato anche il giorno del matrimonio con Paula, la madre dei miei tre bambini. Avevo del tempo, e allora perché non farlo, sfilandomi il tight da cerimonia? Nella vita c’è sempre tempo per tutto, ma dobbiamo saperlo trovare, il tempo, avere metodo, non lasciare che la vita ci sfugga via in fretta senza che ce ne accorgiamo. Forse aver giocato oltre mille partite, centomila minuti inesorabili sul campo, mi ha insegnato a rispettare il valore del tempo.

Il tempo somiglia a un miraggio, a un’illusione ottica, e a volte può tradirci. Un grande campione e mio compagno all’Inter, Samuel Eto’o, l’unico calciatore ad aver vinto due Triplete, ossia campionato, coppa nazionale e Champions League nello stesso anno, il 2009 e il 2010, ricorda ridendo che in una partita entrata nella storia – al Camp Nou, nella semifinale di Champions League contro il Barcellona del mio amico Lionel Messi, per molti la più forte squadra di sempre – passandogli accanto gli gridai per incoraggiarlo, dopo un suo strepitoso recupero difensivo, lui attaccante costretto da un’espulsione a fare il terzino: «Bravissimo, Samu, dai che manca poco!». Rinfrancato, Eto’o alzò gli occhi verso il tabellone, scoprendo però che eravamo solo al 37’ del primo tempo. Non ti prendevo mica in giro, grande Samuel, ma da capitano, nella tensione, dovevo ricordarti che possiamo governare il tempo, non lasciarci mettere sotto. Stamattina presto, mentre mi alleno con Luis e calcolo il tempo degli esercizi, la mente vaga – capita quando provate a concentrarvi e il corpo fatica – e allora alzo lo sguardo intorno a me, per riprendere il filo dei pensieri. Sono al Predio, il campo di allenamento della Nazionale argentina, un luogo dove sport, storia e mito si respirano sui prati, come al verdissimo Coverciano per la Nazionale azzurra o all’immacolato Saint George’s Park per l’Inghilterra. Nella sala appena fuori dalla palestra dove sudo, alcuni pannelli fotografici ricordano le vittorie della gloriosa albiceleste, la Nazionale argentina così definita per la maglia biancoceleste, i Mondiali vinti e i grandi allenatori: César Menotti solenne, Carlos Bilardo sorridente.

Ai muri sono appese foto e divise dei magici numeri 10 argentini che rivaleggiano con Pelé per la fama dell’asso degli assi: Diego Armando Maradona e Lionel Messi. Li guardo ogni volta che entro al Predio: Diego che a sorpresa non mi convocò in Nazionale ai Mondiali del 2010, senza un motivo tecnico e purtroppo con poveri risultati in campo, Lionel che da capitano dell’albiceleste ho visto crescere: un amico, un ragazzo semplice e timido fuori dal campo, una stella che in partita è capace di aggirarti come fossi il birillo di uno slalom e andare in gol. Sui giornali leggo l’elenco infinito delle sue partite, ci scambiamo sms sul telefonino, e da fratello maggiore vorrei dirgli: «Lionel riguardati, non giocare troppo, non farti imporre match inutili dal sistema e dal calcio show business. Anche il tuo tempo passerà, difendi il tuo corpo».

Io sono un uomo fortunato e felice, il mio fisico non si è logorato. A quarant’anni ho battuto, secondo l’onnisciente Wikipedia, ogni record di presenze, con l’Inter nella Serie A italiana e nelle coppe europee per club, con la Nazionale argentina tra Mondiali e Coppa America. Il mio numero 4 è sceso in campo più di qualunque altra maglia della mia generazione. Dei ragazzi che hanno cominciato con me non resta più nessuno, solo qualche portiere: chi era insieme a me nelle giovanili oggi allena, fa il giornalista, il dirigente, magari tira qualche calcio al pallone in partitelle tra ex giocatori che – all’insaputa della stampa e dei tifosi, in gran segreto, su campetti di periferia – gli assi di un tempo continuano a disputare. Ma non provano più la pressione dello spogliatoio, non sentono l’urlo dei tifosi e i fischi degli avversari. Per loro il Novantesimo Minuto dell’ultima partita è stato già fischiato.

 

Fonte: corriere.it

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