SpazioInter’s Stories – Diego Godín, il materassaio diventa Faraone

Dal 1912, nella squadra meno blasonata di Madrid, in campo si gioca con una divisa biancorossa, a righe. Nei nove anni precedenti, a partire dalla nascita del club come costola dell’Athletic Bilbao, si giocava con un rimando alla tradizione basca, quella che voleva i calciatori del Bilbao indossare quella semplice ma accattivante maglia biancoblù. Nella Spagna che precedeva gli anni duri del franchismo, però, le disponibilità economiche latitavano, dunque è stata trovata una soluzione low-cost; l’Atletico diventa la squadra dei materassai ed il motivo è semplice: i fondi dei materassi, biancorossi, erano facili da reperire e veniva data loro nuova vita.

Per nove anni, anche un possente ragazzo uruguagio si è districato tra lenzuola, coperte e cuscini madrileni. Arrivava dal mare, dalla costa orientale della penisola iberica che si affaccia sul Mediterraneo, in quella cittadina dal nome incerto: Vila-real o Villarreal? Beh, la forma ufficiale richiede il trattino, ma i tifosi del Submarino amarillo preferiscono l’unione, come quella data per tre stagioni da quel ragazzo proveniente dal Sud America e da quel Gonzalo Rodríguez visto anche a Firenze. Ma facciamo un passo indietro, ben prima dei materassi madrileni o del sottomarino giallo sul Mediterraneo: tuffiamoci nell’infanzia di Diego, in quella Rosario che l’ha visto resuscitare dalle acque.

NON SOLO FÚTBOL A ROSARIO

Nasce in mezzo al verde, immerso in quelle vaste praterie che circondano la sua Rosario e che porta sempre nei suoi pensieri:

Mi sono sempre piaciuti i grandi spazi, i cavalli, la caccia, la pesca. Quando sono nella natura ho l’impressione di essere nella mia bolla: se voglio qualcosa devo andare in città.

Esatto, perchè ce n’è voluto di tempo prima di trovare il suo unico e vero habitat naturale, l’erba del campo da calcio. Diego Roberto Godín Leal è un predestinato del gioco, ma per capire quale fosse la strada decisa dal destino ha dovuto affrontare faccia a faccia una delle più grandi paure che si hanno da bambini, non poter scappare dalle correnti dell’acqua. Succede tutto molto in fretta, a 4 anni: è a pesca in uno dei tanti ruscelli ramificati per il territorio di Rosario, quando perde l’equilibrio e cade in acqua. Se stiamo parlando di lui oggi chissà chi bisogna ringraziare, perchè neanche Diego sa come sia riuscito a salvarsi:

Ricordo solo di avercela fatta.

Da lì la necessità di imparare a nuotare, assieme alla passione per il basket, per il volley e per l’atletica. Infine il calcio, attirato dall’entusiasmante vittoria della Celeste nella Copa América casalinga del ’95; la difesa, però, non lo attira proprio: meglio giocare davanti, cercando di costruire gioco e servire gli attaccanti. Sì, Godín nasce trequartista: suona strano, molto.

Ci nasce nell’Estudiantes de Rosario prima (ai tempi del Liceo) ed al Defensor poi, nella sponda viola della capitale Montevideo. Dalle parti dei rivali del Danubio, però, le cose non vanno benissimo: Diego passa solo un anno tra le fila dei Los Tuertos, ma l’avventura termina nel peggiore dei modi.

1090 PESOS CHE VALGONO LA CARRIERA

In Italia, con quella cifra ci compri una bella torta per il compleanno del tuo nipote preferito; oppure ci paghi un quarto di un’elegante cena con la tua bellissima consorte. Quello che è certo, però, è che con 27 euro non compri un giovane calciatore in rampa di lancio. Sì, 27 euro, 1090 pesos uruguayos che il Club Atlético Cerro sborsa nelle casse del Defensor, che si renderà ben presto conto del gravissimo errore appena commesso. Appena maggiorenne, Diego gioca 56 gare in Primera División condite da 6 reti: segnare di testa gli piaceva già all’epoca.

Le tre stagioni al Cerro gli valgono la chiamata della big, quel Nacional de Montevideo tanto disprezzato ai tempi del Defensor ma in fondo tanto ricercato. L’unica annata con la maglia bianca dei Tricolores è speciale: non solo scende in campo 26 volte con i campioni d’Uruguay, ma a casa Godín iniziano a risuonare le sirene europee, principalmente quelle spagnole.

Dove eravamo rimasti? Ah sì, in quel Sottomarino giallo di ispirazione inglese ma di tradizione assolutamente iberica; quel Sottomarino in cui Diego può finalmente respirare, senza combattere strenuamente contro l’acqua del ruscello di Rosario. Eccome se può respirare.

LEADER SOTTO LA GUIDA DELL’INGEGNERE

Non è mai stato un gregario. Diego è sempre stato qualcosa di più: un capo cantiere, uno che dirige i lavori. L’aveva già dimostrato nei tre anni al Cerro, capitano fin troppo giovane nella massima serie del suo Paese. E in Spagna è stato lo stesso, guida tecnica e carismatica di quel Villarreal guidato da Manuel Pellegrini, quell’ingegnere che non aveva una filosofia calcistica sopraffina, ma faceva giocare le sue squadre con una tranquillità accademica. E no, non giocavano male.

Dialogano talmente bene che il primo anno del 4 uguguagio davanti alla porta del connazionale Sebastián Viera vale il secondo posto, dietro ai Galacticos e davanti ai Blaugrana. In totale sono 116 partite in tre anni: gioca sempre. Ah, un’istantanea, particolarmente importante.

Il 17 aprile 2010, alla Cerámica, va in scena un match con un’importanza tanto irrilevante per la classifica quanto vitale per il futuro del nostro Diego. Piove e sugli spalti sono tutti coperti, persino i pochi presenti del fan club finlandese dei padroni di casa. È il 21′ quando Ariel Ibagaza crossa in mezzo con il destro: sembra un cross innocuo, quando arriva Diego in discesa dopo il tentativo di testa. Viene fuori una cosa strana, casuale ma spettacolare: colpo di tacco al volo. L’Atletico rimane estasiato: non è il gesto tecnico, ma la voglia di buttare in rete quella palla che sembrava destinata ad un nulla di fatto. Il Faraone si prende lo scettro sul materasso, finalmente.

ATTERRAGGIO NELLA CAPITALE

Affronta il suo futuro, fin da subito: nella notte del rigore parato da De Gea a Milito e della rete del tanto amato José Antonio Reyes, c’è anche lui, al fianco della leggenda Luis Amaranto Perea Mosquera, secondo nella classifica delle presenze del club. Dietro a Godín, ovviamente.

La vince quella Supercoppa, ed è la prima di tante soddisfazioni con quel fondo di materasso addosso. Non si è adagiato, è come se ogni partita marcasse Cristiano Ronaldo, il suo più grande incubo in carriera:

Per 90 minuti non puoi mollare un secondo, perché è quel secondo che a lui basta per segnare.

Non puoi addormentarti con quella divisa nata dal riposo notturno; in più, per la legge del Faraone, non puoi nemmeno divertirti, perchè il calcio non è divertimento:

Il calcio per me non è un divertimento né un mezzo per procurarmi emozioni forti. È prima di tutto una responsabilità: tutto il calcio uruguayano non esisterebbe senza la nozione di sacrificio. Da piccolo mio padre non voleva che giocassi per divertirmi: lo sento ancora dirmi “bisogna che t’alleni, che vinci! È una tua responsabilità!”.

Con il Cholo, la concentrazione si eleva al massimo delle potenzialità: il generale ed il Faraone, una bella coppia, che funziona. Funziona in campo e fuori, soprattutto nella crescita mentale e carismatica dei compagni di squadra e di reparto; non è un caso che quest’anno il testimone sia passato dritto nelle mani di José María Giménez, uno che non è mai stato così sicuro fino al primo allenamento con sua maestà Godín.

L’escalation di emozioni la prova con i primi caldi di maggio, in una Barcellona bollente non solo per le temperature. I Colchoneros sono arrivati a giocarsi il decimo titolo della loro storia in casa dei fenomeni, in un sabato 17 maggio che può sapere di gloria o di rimpianto, l’ennesimo nella storia dell’Atleti. E invece no: Diego aveva deciso che quella partita non andava persa e si è preso sulle spalle il suo popolo, anzi, sulla testa. Sale in cielo, sopra a tutti i santi protettori del popolo azulgrana e la butta in rete. Poi, come un condottiero in battaglia, resiste agli attacchi avversari per tutta la ripresa. 1-1: campeones, olè olè olè.

Un po’ come aveva fatto in Champions, quando ai quarti di finale aveva buttato fuori proprio Messi & Co. In finale, però, c’era il derby. Il risultato è lo stesso di una settimana prima: angolo e gol, ancora di testa, ancora arrivando a toccare il cielo. A scavalcare Casillas, costretto a raccogliere la palla in rete come aveva fatto il collega José Manuel Pinto. Il ruscello, però, si prende la sua rivincita: Diego è costretto ad annegare, sommerso dall’onda finale di Sergio Ramos e dai colpi di cannone targati Bale, Marcelo e Ronaldo.

Andrà a giocarsene un’altra di finale, ma l’epilogo sarà lo stesso. Ancora derby, ancora Real, ancora sconfitta, stadio diverso. Quel San Siro che ora lo acclama, come in occasione di un altro derby, la sua prima stracittadina italiana gestita magistralmente. Un vero e proprio leader per un altro generale in panchina, quell’Antonio Conte che senza volerlo se l’è ritrovato ad Appiano: se proprio devo..

Stavolta le righe hanno cambiato colore: quel nerazzurro è difficile trovarlo nei materassi, ma arriva dalle tana dei serpente, quel biscione che spesso avvelena l’avversario. Il Faraone, però, con la cura dello sciamano Conte, ha già trovato l’antidoto: quella maglia sembra che gli sia stata cucita addosso.

Eleganza, serietà e leadership: l’Inter ha trovato il suo Faraone.

Impostazioni privacy