CdS – Mazzola (2/2): “Il momento più bello all’Inter? La prima finale di Coppa dei Campioni, il più brutto nel 1967. La mia formazione ideale…”

Ecco la seconda parte dell’intervista di Sandro Mazzola rilasciata al Corriere dello Sport.

Poi arrivarono il primo ingaggio e il vero esordio.
“Mi chiamarono per andare in sede. Allora non c’erano i procuratori. Poi io ero talmente emozionato, in mezzo alle foto di tutti i campioni della storia interista, che se mi avessero offerto una gallina vecchia avrei accettato. Invece mi proposero 40.000 lire al mese più i rimborsi spese. Mia madre, quando tornai, non ci credeva. Mi disse che mi ero sbagliato, era troppo. Il secondo contratto fu addirittura di 120.000 lire e mia madre diventò matta. Disse che neanche papà prendeva tanti soldi. Ricordo che quella sera, per festeggiare, volle che andassimo all’osteria a prendere una bottiglia di vino. Di solito dovevamo farcela bastare per una settimana. Quella sera volò via, doveva essere celebrato come un momento eccezionale”.

Quale è stato il momento più bello che ha vissuto nell’Inter?
“La prima finale di Coppa dei Campioni con il Real Madrid. Deve sapere che noi non avevamo la tv. Si andava all’osteria e, se consumavi una spuma, potevi vedere la partita. Tutte le finali della coppa prima le giocava o vinceva il Real. Io ero innamorato di Alfredo Di Stefano che tutti dicevano giocasse proprio come papà. Lo adoravo: elegante, tecnico, sempre con la testa alta. Al Prater me lo vidi davanti all’improvviso, mentre aspettavamo di scendere in campo. E restai imbambolato. Per me era un divo della tv. Finché Suarez mi batté sulla spalla e mi disse ‘Noi scenderemmo in campo, tu resti qui a guardare Alfredo?’. Feci anche un gol, quella sera. In verità non voluto, quasi per caso, ma non fa nulla. Festeggiai in modo plateale, non la finivo più. Sempre Suarez mi disse ‘Guarda che se non smetti questi ce ne fanno quattro’”.

E il momento più brutto?
“In una settimana, nel 1967, perdemmo Coppa dei Campioni e scudetto. Prima con Il Celtic e poi con il Mantova, in quella maledetta partita. I loro difensori dicevano che mi avrebbero fatto segnare. Ma io non ci riuscii. Poi ci fu quel maledetto errore di Sarti. Ma io lo conosco bene e so che fu un errore di un portiere che cercava di rendere facili le cose difficili. Non credetti certo alle cattiverie che misero in giro sul suo conto quando l’anno dopo passò alla Juventus. La verità è che perdemmo quelle partite perché era finito un ciclo e la società aveva già fatto sapere che intendeva vendere alcuni giocatori. Game over, pensammo inconsciamente. Ma quando tornai in auto da Mantova, con il mio patrigno, piansi lo stesso per tutto il viaggio”.

La sua formazione ideale di tutti i tempi?
“Ghezzi, Burgnich, Jack Charlton, Picchi, Facchetti; Beckenbauer, Rivera, Pelè; Van Basten, Cruyff, Messi. Allenatore ovviamente Helenio Herrera”.

Parliamo di due campioni della sua Inter che non ci sono più: cominciamo da Facchetti.
“Giacinto era un grande, ha inventato un modo nuovo di fare il terzino. Fluidificava bene, segnava tanto. Nel gruppo se ne stava molto per conto suo. Per lui Herrera era una specie di Dio. Non ammetteva che sbagliasse. Quando noi protestavamo perché il Mago esagerava, era troppo cerbero, lui si metteva in disparte”.

E Picchi?
Giocatore geniale, grande capitano. Lui prevedeva tutto. Una volta, in una partita decisiva per lo scudetto, dovevo battere un calcio di rigore, anch’esso decisivo. Ma ero inquieto. Perché il portiere, William Negri, era con me in nazionale e sapeva come tiravo e poi perché il campo era pesante per la pioggia e il fango. Mi accorsi con sorpresa che Picchi stava venendo al limite dell’area, lui che non lasciava mai la sua. Mi vide titubante e mi disse ‘Dammi la scarpa’, poi me la pulì con la sua maglietta. Allora mi guardò negli occhi e mi rassicurò ‘Adesso puoi fare gol’. Segnai con quella scarpa, pulita da un campione di calcio e di vita”.

 

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