Lettera di un tifoso: “Comunque vada, onore a Strama!”

onore a Stramaccioni esultanza derby 11Ricordi sbocciavan le viole con le nostre parole ‘non ci lasceremo mai, mai e poi mai’, vorrei dirti ora le stesse cose ma come fan presto, amore, ad appassir le rose. Così per noi l’amore che strappa i capelli è perduto ormai, non resta che qualche svogliata carezza e un po’ di tenerezza“, cantava Fabrizio De Andrè ne La Canzone dell’Amore Perduto.

Capita, nello sport come nella vita, che l’innamoramento ceda il passo alla disaffezione e l’amore assuma altre sembianze affettive. Capita perchè, spesso, i sentimenti da soli non bastano a rinnovare e rinvigorire i rapporti ed avrebbero bisogno di sacrificio, impegno, forza di volontà e disponibilità.

Moratti scelse Stramaccioni di slancio. La gioia per la conquista della “Champions dei piccoli” entusiasmò ed inebriò il presidente nerazzurro sfiduciato dalla disillusione che aveva spezzato la magia di un Triplete indimenticabile. Fu una scelta controcorrente in un mondo, quello del calcio, che ha sacrificato al look postmoderno, fatto di affari e spettacolarizzazione, buona parte dei suoi connotati di sport e che ragiona in meri termini di investimento.

Un mondo esasperato ed esasperante dove frequentemente si usano i missili per scacciare le mosche pur di mettere a tacere le coscienze. Una scelta controcorrente, dunque, quella di Moratti che, se vogliamo, consegnò anche un messaggio culturale e sociologico: la sensazione che, in un Paese dove il merito è abbattuto e mortificato dal bieco nepotismo e le opportunità sono prerogativa di lobbies e di pulsioni elitarie, ci fosse ancora spazio per talento e passione.

La scelta di Stramaccioni ha significato che vi è una possibilità per tutti e che, a volte, proprio passione e talento possano valere più dell’esperienza e del curriculum. Il mister romano ha impiegato poco per conquistare la sua gente e creare quell’empatia che mancava dai tempi dello Special One. Come dimenticare la prima sconfitta imposta all’armata bianconera nel suo stadio o l’esultanza spensierata sotto la Nord dopo il derby d’andata. Come dimenticare, contestualmente, le tante, forse troppe, vicissitudini che ha dovuto affrontare.

Eppure, nonostante la paura della solitudine potesse spingerlo verso la resa, è stato sempre lì a schiena dritta e sguardo alto, ha messo sempre la faccia, ha difeso, con fare autorevole e impavido, la sua squadra, il suo lavoro, la sua missione. Perchè questo vuol dire allenare l’Inter: accettare una missione che, spesso, si traduce in un’affannosa lotta per la sopravvivenza.

Stramaccioni, spesso con fare simpaticamente guascone, a volte con gli occhi lucidi, ha asservito se stesso alla causa nerazzurra. Come dimenticarlo. Con la forza della passione e la volontà della ragione ha interpretato in maniera degna e pulita l’autenticità della fede interista. Molto probabilmente non basterà e pagherà il prezzo di un diffuso malcostume farisaico. Peccato. Peccato davvero per un giovane che non è stato un vezzo da dandy ma una scelta consapevole e responsabile.

Un uomo vero in un mondo, probabilmente, di attori e comparse che recitano copioni e interpretano ruoli. Onore a te, Strama, nerazzurro di adozione, interista tra gli interisti.

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