Cinque minuti di insana pazzia

Mazzarri cinque minutiUna notte di ordinaria follia, anche se per una volta ci saremmo accontentati di un po’ di inconsueta normalità.

Torino-Inter rappresenta, sin dai suoi albori, un chiaro esempio di psicologia inversa (per capirci, ciò che succede quando ti agiti innanzi a chi ti consiglia di calmarti), sviluppandosi attraverso trame di gioco contrarie a quelle che ci saremmo potuti prefigurare. Ti aspetti un’Inter arrembante, pronta ad avvantaggiarsi dei fragorosi capitomboli di Napoli e Juventus e, per tutta risposta, i primi cinque minuti di gioco sembrano estratti da una pellicola di Dario Argento.

Allora cresce e matura la convinzione che sia fin troppo difficile risalire la china e affermarsi in inferiorità numerica, ma le abilità balistiche di Guarin e l’immensa generosità di Palacio trovano il modo di depistarti ancora una volta. Manca una manciata di minuti e i tre punti sembrano custoditi nell’inaccessibile caveau di una banca svizzera, ma Bellomo, sfruttando il valido aiuto di un complice infiltratosi all’interno dell’edificio (un certo Juan Pablo Carrizo) riesce ad eludere il sistema di sicurezza e a trafugare le restanti tracce dei sogni di gloria nerazzurri.

La prestazione del portiere argentino, dal rigore neutralizzato fino al gol incassato, si trasforma in una parabola simile alla traiettoria disegnata dal suo mattatore, riassumendo simbolicamente i due differenti volti della serata interista. Da una parte la manifesta volontà di gettare il cuore oltre l’ostacolo, dall’altra errori che difficilmente possono essere oscurati dall’atteggiamento volitivo della squadra e dallo stoico tentativo di sopraffare l’avversario, senza curarsi delle difficoltà.

L’andatura timorosa dei minuti iniziali sembra ricalcare le scelte tattiche dell’allenatore, retaggio della sua lunga carriera: Cambiasso e compagni le recepiscono involontariamente come un invito ad aspettare gli uomini di Ventura, lasciando la retroguardia in balia delle accelerazioni di Cerci. Kovacic esce dopo cinque minuti e assume sempre più le sembianze di un prezioso quadro lasciato in una cantina buia e fredda, lontano dagli occhi indiscreti degli appassionati d’arte.

Ogni teorema geometrico deve essere giudicato in base alla sua dimostrazione e, così, anche nel nostro caso arriva la relativa controprova, quando nel secondo tempo entra Belfodil, cui è affidato il compito di far sentire meno solo Palacio nell’area di rigore avversaria. Una scelta, questa, che favorisce la manovra offensiva evitando, al contempo, di sovraccaricare i difensori nerazzurri, orfani dell’insostituibile Campagnaro. Costituisce un chiaro ritorno alle origini la intempestiva decisione di sostituire lo stremato attaccante albiceleste con l’inesperto Wallace proprio nei delicati minuti finali: l’Inter cambia nuovamente pelle, come un serpente con la sua muta e i granata trovano la rete dell’insperato pareggio.

I denominatori comuni delle ultime tre partite disputate iniziano a suonare come un campanello d’allarme: sette reti subite, quattro realizzate e soltanto due punti raccolti contro Cagliari, Roma e Torino. Ciò che più preoccupa, però, è la fatica mostrata nel prescindere da alcuni giocatori e le difficoltà incontrate nell’accantonare idee di gioco precostituite, assomiglianti a involucri senza alcun contenuto.

A Mazzarri (o a chi per lui) l’arduo compito di riempirli…

 

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