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Il tallone d’Achille dei campioni

Se mi vedete combattere con un orso, pregate per l’orso. Ho sempre amato questa frase. E’ la mentalità del mamba: noi non indietreggiamo, non tremiamo e non scappiamo. Noi resistiamo e conquistiamo. Forse ora è il momento di riposare ed essere agitato per l’operazione. Il primo passo di una nuova sfida”.

Il mio obiettivo è quello di tornare più forte di prima. Ci credo. Dovevo cambiare gomme dopo tanti chilometri. Mi spiace per come sia andata la stagione. L’infortunio può capitare, fa parte del mestiere, la cosa più importante è la squadra. Decideremo quando operarmi. Non mi hanno ancora detto tempi, ma la mia carriera non è certo finita, l’importante è guarire bene”.

Potrebbero sembrare due parti di uno stesso discorso, pronunciate dalla stessa bocca, timori dello stesso atleta. Ma non è così. Vengono da continenti diversi, da sport diversi, da personalità diverse. Kobe Bryant il primo, Javier Adelmar Zanetti il secondo. Mai due atleti tanto diversi nel background e nel carattere vissero una carriera con così tante analogie.

Kobe arrivò a Los Angeles nel 1996, non per caso. A tutti i general manager chiamati a scegliere nella notte del Draft il giocatore del futuro della propria franchigia fece chiaramente capire che avrebbe giocato soltanto nei Lakers. Talentuoso ma indisciplinato, solo con l’arrivo del guru della panchina Phil Jackson arrivarono i primi successi, prima come scudiero di Shaquille O’Neal, centrone dominante a cui i gialloviola rinunciarono proprio dopo il “trepeat”, e poi in solitaria, frantumando record da bandiera della squadra e dell’intera lega, fermandosi a un solo titolo dai sei di Jordan.

Un anno prima sbarcava a Milano Javier Zanetti, quasi per caso, insieme al ben più quotato Rambert. Molto poco talentuoso, ma incredibilmente ligio al dovere, l’argentino scalò vertiginosamente le gerarchie della squadra fino a diventare l’erede di Bergomi. Capitano di un’Inter mai vincente in Italia e solo una volta nell’allora Coppa Uefa (col contributo di una sua rarissima rete), iniziò a macinare trionfi a un decennio dal suo arrivo, prima all’interno dei confini nostrani con Mancini e poi sul tetto d’Europa con Mourinho.

Per entrambi la stessa partenza, quell’Italia che Kobe ha vissuto da adolescente al fianco del padre Jellybean e che Zanetti ha reso la sua dimora per la maturità. Per entrambi lo stesso amaro finale di stagione, un tremendo infortunio al tendine d’Achille, a due settimane di distanza l’uno dall’altro, a una manciata di partite dalla fine di una disastrosa annata in cui continuavano a resistere, con la mentalità del mamba, mentre i compagni intorno venivano frenati dagli acciacchi ai quali loro riuscivano comunque a sopravvivere.

Per entrambi la stessa voglia di ripartire, guidati da un rispetto senza precedenti prima per il proprio fisico e poi per il proprio sport di cui sono diventati icone mondiali, rispettati da ogni tifoseria che, bostoniana o milanista (con qualche eccezione) che fosse, non ha fatto mancare la propria solidarietà.

Forza Mamba, forza Pupi. Tornate presto! I Lakers e l’Inter hanno bisogno di voi. Lo sport ha bisogno di voi.

 

Giovanni Cassese

(Twitter: @vannicassese)

This post was last modified on 30 Aprile 2013 - 15:19

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redazione