Mazzola: “La mia storia all’Inter, anche se iniziai…”

Mazzola Inter, il grande campione si racconta

Mazzola Inter, la leggenda nerazzurra ripercorre la sua carriera

Certi personaggi non sono nemmeno definibili bandiere, tanta è la loro importanza nella storia di un club. Più corretto parlare di icone, o di leggende. È il caso di Sandro Mazzola, campione indissolubilmente legato alla storia nerazzurra. Ripercorre la sua vita in un’intervista al Corriere della Sera, con particolare attenzione al momento interista.

Lei cominciò con il basket.
«Mi allenavo con il Simmenthal, ma la mia passione era il calcio. Giocavamo a Porta Ticinese, alle colonne di San Lorenzo. Ogni tanto la palla cadeva nelle catacombe, e avevamo paura di scendere a riprenderla. Oppure finiva contro la vetrata del pasticcere, che ce la bucava».
Come arrivò all’Inter?
«Grazie a Benito Lorenzi, detto Veleno. Personaggio da romanzo. Cattolicissimo, non perdeva una messa. Buono d’animo, terribile in campo. Provocava Boniperti chiamandolo Marisa, con Charles metteva in dubbio la moralità della regina. Prese me e mio fratello sotto la sua protezione: entravamo a San Siro vestiti da Inter, ci sedevamo accanto alla panchina. Se l’Inter vinceva, Lorenzi faceva dare anche a noi le 30 mila lire di premio partita».
Nelle giovanili il suo allenatore era Meazza.


«Una volta urlai dietro a un compagno che non mi passava la palla. Meazza a fine partita mi chiama e mi fa: “Pastina, mi ho vinciü dü campionà del mund, e ho mai vusà dré a un me compagn. Se te ciapi un’altra volta, ti te giughet pü”; se ti becco ancora, non giochi più».

 

L’esordio è il rapporto con Herrera

In campionato esordì in Juve-Inter 9 a 1.


«Angelo Moratti aveva schierato la Primavera per protesta. Boniperti venne a salutarmi: “Lo sai che di nascosto andavo a vedere le partite di tuo padre? Era il più grande”. Feci l’unico gol dell’Inter. Sivori ne mise dentro sei».
A 21 anni la prima Coppa dei Campioni.
«All’ingresso mi incantai a guardare Di Stefano. Non ho mai visto un calciatore più forte, tranne forse Ronaldo prima dell’incidente. E poi tutti mi dicevano che ricordava mio padre: salvava un gol sulla linea e andava a segnare. Luisito Suarez, il vero leader della Grande Inter, mi richiamò: “Resti a guardare Di Stefano o vieni con noi a giocare la finale?”».

E fece due gol.
«Esultai come quando segnavo il rigore a Bacigalupo. Suarez dovette richiamarmi di nuovo: “Guarda che se esageri ce ne fanno quattro”. Alla fine andai da Di Stefano a chiedergli la maglia, ma mi fermò prima Puksas».

Cosa le disse?


«“He jugado con tu padre. Tu eres como el”, tu sei alla sua altezza. Non era vero; ma non sono mai stato tanto felice in vita mia».

Suo fratello Ferruccio ha denunciato che Herrera vi drogava; e lei ne prese le distanze.


«È vero. Ci dava una pastiglietta, che noi sputavamo. Così cominciò a scioglierla nel caffè. Non ne sentivo alcun bisogno, ma erano pratiche correnti nel calcio dell’epoca. Ferruccio aveva motivi di rivalsa nei confronti dell’Inter. Prima che morisse ci siamo riconciliati, ridendone. Il vero doping del Mago era psicologico».

Cioè?


«Nello spogliatoio e diceva: “Oggi si vince facile. Quelli non sono nessuno. Il terzino è lento, il mediano è un brocco…”. Prima della finale del ‘65 col Benfica ci convinse che Eusebio, uno che ha segnato più di 700 gol, fosse una pippa».

Invece?


«Era più forte di Cruijff. Ho giocato con lui in un’Inghilterra-Resto d’Europa: guardava a destra, ti metteva la palla sul piede a sinistra. Ma vincemmo anche quella Coppa Campioni».
È vero che Herrera vi portava da Padre Pio?
«Sì, ma io sono molto credente e queste cose di gruppo non mi piacevano. Così chiesi un incontro privato. Avevo un rovello da sciogliere».

Quale?
«Da bambino avevo fatto un voto: ero disposto a morire giovane, come mio padre, pur di diventare anch’io un campione. Quando lo rivelai al mio confessore mi negò l’assoluzione, disse che era un sacrilegio. Padre Pio ne sorrise».

 

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