EDITORIALE – La vanitas di Mancini

Mi sento nerazzurro, ma finché all’Inter c’è Mancini non torno”: queste le parole durissime di Mateo Kovacic, con cui il talento croato va letteralmente in tackle sul suo ex allenatore. Non è certo la prima volta che il Mancio non viene rimpianto anzi, molto spesso, ci sono delle frizioni anche coi giocatori che allena: il caso Icardi, quest’anno, è stato emblematico. Il bomber argentino è stato accusato dal suo tecnico di non sfruttare a pieno regime la sua vena realizzativa, ma la risposta del numero 9 nerazzurro non si è fatta attendere: Inter brutta sul piano del gioco e i rifornimenti per il reparto offensivo scarseggiano. Finita qui? Certo che no, con Mancini che ha dichiarato che se e occasioni mancano bisogna andarsele a cercare. Il duello rusticano tra allenatore e attaccante (andato in scena nella conferenza stampa che anticipava la partita contro il Bologna nel girone di ritorno) probabilmente si acceso e ha divampato anche grazie alle personalità focose dei protagonisti. Icardi è un perfetto numero 9: cinico, spietato, facente parte di una razza, quella dei centravanti puri, ormai in estinzione. Mancini in campo era un numero 10: elegante, puntiglioso (quasi certosino), pioniere di quella classe di talenti con quel magico numero sulla maglia che negli anni Duemila verranno coccolati e viziati. Un self-made man contro un ricco ereditiero. Metti due galli in un pollaio…diceva qualcuno. E infatti le scintille non sono tardate ad arrivare. Mancini

Dopo la gara col Carpi Mancini esordisce con un (poco politically correct) “Il gol che ha sbagliato Icardi l’avrei fatto ance io a 50 anni”; naturale che il 23enne argentino sia stato punto sul vivo. Scintille che si sono (auto)alimentate pre-Bologna con le parole di cui sopra. Ognuno dei due contendenti ha fatto crollare le certezze dell’altro come un castello di carte: per il Mancio Icardi si impegnava poco, per Maurito la squadra giocava in maniera mediocre. Una critica, quest’ultima, che Mancini aveva ricevuto già quand’era al City. Già, il City. Anche lì Mancini ha avuto il suo bel vespaio: Dzeko è solo la punta dell’iceberg quasi massonico che ha lavorato per licenziare il tecnico jesino (il bosniaco dopo il suo esonero ha dichiarato di avere parecchi malumori: incredibile ad esempio la sua esclusione dopo aver segnato 4 gol al Totthenham nel 2011).

La verità è che il Mancio si sente ancora un numero 10 e ciò che esigeva in campo (Salsano, suo collaboratore che ha giocato con lui alla Samp, ne sa qualcosa: “Aveva un carisma e una personalità pazzesche. Era difficile essere suo compagno perché ti chiedeva sempre il massimo. Alcuni soffrivano la sua personalità”), sicuramente lo esige ancora adesso. Con la stessa determinazione, precisione, mania di perfezionismo. Ma se l’intenzione è nobile, certamente la forma va rivisitata: casi Ljajic, Jovetic e adesso Kovacic docent. Se si tira troppo la corda essa finirà per spezzarsi; e in un calcio sempre più pieno di primedonne un allenatore non può permettersi di esserlo, anche a costo di ridimensionare la propria vanità.

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