GdS (1/2) – Icardi: “Eccomi tra paura, cibo, viaggi e…”

La Gazzetta dello Sport oggi propone un Mauro Icardi che si confessa su tutto, dai primi periodi in cui si definiva “cocco di mamma” alla prima volta che gli chiesero se sapeva giocare a pallone, ad una carriera calcistica incompleta a causa della nazionale e nell’Inter: “Ci ha fregato gennaio e da lì in poi ci è mancata la cattiveria che ti fa dire che ce la possiamo fare. Certi errori non saranno da buttare se serviranno nella prossima stagione, giocando l’ultima Europa League e aspettando la Champions, ma non aspettandola e basta”.

icardi empoli 4

VIAGGI

Il viaggio della vita, nel senso che me l’ha cambiata, l’ho fatto a 9 anni: da Rosario a Gran Canaria, troppo grave la crisi in Argentina per vivere lì. Era giugno, ma papà era là da marzo a preparare il trasloco e avevamo già lasciato la nostra casa, che era separata solo da un muro dal campo del Sarratea, il mio club: per tre mesi abbiamo vissuto lì, in una stanza accanto agli spogliatoi, che mamma chiudeva a chiave quando c’erano gli allenamenti. Il giorno prima di partire, festa a sorpresa e regalo: un enorme lenzuolo bianco con la scritta “Non c’è oceano che possa separarci quando porti Sarratea nel sangue”. Non piansi per quello, ma per il mio cane Toto, il più famoso del barrio perché abbaiava e correva dietro a tutti. A un certo punto ho lasciato la festa e sono andato a sedermi accanto a lui, per salutarlo: “Vado a fare il mio primo viaggio in aereo”. In realtà era il primo viaggio fuori dal mio quartiere e a mamma chiedevo: “Che lingua si parla là? Cosa mangeremo? Avrò degli amici?”. Ma appena arrivato ho conosciuto Sebastian: lui mi avrebbe fatto giocare nel Vecindario e sarebbe diventato il mio fratello delle Canarie”

CIBO

Me lo ricordo come se fosse adesso: era sabato, giocavo alle sette di sera e poi ci siamo spostati in campagna. Buio pesto, solo la luce della luna piena, e per tutta la notte siamo stati lì a catturare rane. Alle sei del mattino ne avevamo quattro sacchi pieni: ci siamo messi a pulirle, fino a mezzogiorno, poi le abbiamo fritte. Buonissime. Una caccia un po’ diversa rispetto a quella a cui ero abituato, visto che fin da piccolo ho tirato agli uccelli con le fionde: a casa mia il cibo non è mai mancato ­ a volte un po’ di più, altre un po’ di meno ­ ma alcuni miei amici lo facevano per fame e quindi ce li mangiavamo sì. Mai buoni come quella volta che dopo averne presi un bel po’ ci ha avvicinato un bimbo, avrà avuto 4 anni, forse meno: ha visto gli uccelli, è andato a procurarsi due monete, ha comprato patate e cipolla ed è tornato, “Adesso ce li facciamo in padella?”. Io impazzisco per l’asado ­ non c’era domenica che quel gran cocinero di mio padre non accendesse la griglia per tutto il quartiere ­ e pure per le empanadas arabes con la carne marinata, quando inizio posso mangiarne anche 50, però quelle due abbuffate lì chi se le scorda?”.

PAURA

Wanda dice che sono pazzo, ma quando non correrò più il rischio di compromettere il mio lavoro un po’ di bungee jumping lo farò di sicuro: l’idea di saltare nel vuoto legato a un elastico mi dà un brivido, non mi fa paura, e anche a pensarci bene non ritrovo nella mia vita uno spavento indimenticabile. Neanche da bambino avevo paura: buio, rumori, tantomeno gli animali, anzi mi piacciono anche quelli più strani. Tutti tranne i gatti: li trovo un po’ “traditori”, sanno vivere da soli e pensano solo a se stessi. Nel calcio di cosa puoi aver paura? Di una partita, un avversario? Ma dai… Di un infortunio? Ma quella non è paura, è “rispetto” di ciò che può succedere da un momento all’altro. E non è neanche dolore ­ quello passa ­ ma semmai la rottura di scatole di vivere solo i doveri ma non i piaceri del calcio per uno, tre o sei mesi. In verità, se la cosa riguardasse solo me, dovrei dire che non ho timore neanche della morte: se muori, muori, e quando arriva è già tutto finito. Il fatto è che non riguarderebbe solo me e ogni volta che sento di tragedie, incidenti o aerei che cadono, ho paura sì: di lasciare la famiglia troppo presto“.

VECCHIAIA

E chi ci pensa mai? Se a 23 anni avessi in testa l’idea di diventare vecchio sarei messo malino, e poi è una delle leggi della vita, c’è poco da pensare. Conta arrivarci bene come i nonni Dionisio e Luisa, i genitori di mia mamma: per me Tatu e Tati, dai due ai sei anni praticamente ho vissuto con loro perché i miei lavoravano. O come Papa Francesco, che poi se lo guardi in faccia non sembra che abbia quasi ottant’anni, a parte quella sua camminata un po’ lenta. Se penso a lui, penso che il bello della vecchiaia sarà poter vivere soprattutto per aiutare gli altri, anche se ho un concetto molto mio della disponibilità. Non do tanto per dare: da piccolo non mi ha mai aiutato ­ nel senso di regalato niente ­ nessuno, e credo che il miglior aiuto per chiunque sia insegnargli a meritare la generosità del prossimo. Per questo da poco ho litigato con mia sorella: andare all’università in pullman era un casino e siccome mi piace che studi le ho comprato un’auto da quindicimila euro, però poi l’ho fatta imbestialire perché mi ha chiesto 60 euro per un paio di occhiali che le piacevano e le ho risposto di andare a lavorare e arrangiarsi. Ha capito cosa intendo?“.

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