GdS (2/2) – Icardi: “Ho una famiglia numerosissima! I tatuaggi, i social network e i momenti bui…”

Prosegue ne La Gazzetta dello Sport il racconto di Mauro Icardi tra religione, social network, famiglia e tatuaggi, parole che esaltano la maturità di un ragazzo di 23 anni che sino ad ora ha corso a mille all’ora, tra la passione dei Tweet e un amore alquanto discutibile, ma solo per chi lo osserva, non per lui che rende semplice qualsiasi cosa.

Icardi-Eder

RELIGIONE

Se non credessi, non me la sarei fatta disegnare sulla pelle. Vede? Questa è la Virgen del Rosario de San Nicolás e c’è anche in tutte le mie foto di quando ero bambino: al collo, legata con un laccio per le scarpe, portavo sempre una medaglietta con la sua immagine. Un regalo della nonna Tati prima che un tumore se la portasse via, e io avevo dormito nel letto con lei fino al giorno prima. In suo ricordo, con la mamma andavamo alla processione che si faceva ogni anno per la Vergine, ma ancora non sapevo bene perché: mi dicevano di farlo e lo facevo. Ho iniziato a capire con il catechismo ­ stavo attento come a scuola ­ e ho iniziato a sentire perché in tanti momenti Dio mi ha fatto sentire che c’è. Non vado spesso a messa, non prego tutti i giorni, ma quando lo faccio ho quasi sempre delle risposte e una volta, a Las Palmas, sono andato anche io in pellegrinaggio a piedi fino al Santuario di Santa Rita, anche se oggi non ricordo più cosa avevo chiesto. Invece ricordo ogni attimo di quando mi sono trovato davanti a Papa Francesco e gli ho chiesto di benedire il pancione di Wanda: è per questo che nostra figlia si chiama Francesca“.

SOCIAL NETWORK

Chiariamo, una volta per tutte: oggi quasi tutti hanno almeno un profilo, ma io uso i social network da molto prima di quasi tutti e non come tanti, che nascondendosi dietro l’anonimato si divertono a giudicare. Sapessero quanto ci divertiamo io e Wanda, a leggere quello che scrivono… Tanto giudicare è gratis, si può far diventare bad boy anche il ragazzo più semplice del mondo, come credo di essere nelle cose essenziali: uno normale che fa cose normali. E’ per questo che posto foto e scrivo: chi mi guarda e mi conosce per quello che faccio in campo, così può vedere anche chi sono e come vivo fuori da lì, perché io mica vivo dentro il campo. Ecco perché non mi pento di nulla, neppure di mettere foto dei miei figli, compresi quelli di Maxi: vivo con loro 365 giorni all’anno, anche loro sono la mia vita. Mi chiedono: ma non diventa una schiavitù essere così social? Ma perché? Se sei un personaggio pubblico, in un certo senso “sei di tutti”. E poi a volte, è inutile fare i finti puristi, è anche una questione di lavoro: quando devi firmare un contratto pubblicitario ormai la prima domanda che ti fanno è sempre quella, “Hai un profilo?”.

FAMIGLIA

Prima di stare con mia mamma papà Juan aveva avuto due mogli, con un figlio dalla prima e due dalla seconda. Poi con mamma Analia siamo arrivati io, Ivana e Guido. Poi quando ero ancora a Barcellona si sono separati: papà è tornato con la seconda moglie, mamma dalla sua nuova relazione ha avuto da poco due gemelli e gliel’ho anche detto che è una scelta un po’ così, “a più di quarant’anni devi rifare la mamma, e potevi fare solo la nonna”. E comunque: totale otto fratelli. E io considero fratelli veri tutti, non solo Franco, il più grande, quello che quando ancora non capivo bene mi spiegava che si può avere lo stesso papà, ma non la stessa mamma. A parte il calciatore, Juan ha fatto di tutto: imbianchino, meccanico, macellaio, prima di aprire un negozio di alimentari con la mamma. Si prendeva in giro da solo, “Soy aprendiz de todo y oficial de nada”: non siamo mai stati ricchi ma siamo sempre stati felici, nella nostra famiglia aperta. Ma non è per questo che oggi sento anche Valu, Coki e Benchu come figli miei, e anzi Wanda mi rimprovera perché mi dedico più a loro che a Francesca: lo sono perché sono figli della donna che ho scelto, la prima che mi ha fatto pensare di volere una famiglia. A 14-­15 anni mi dicevo “Farò dei figli presto per viverli da giovane”, ma non avrei mai pensato così presto. Un altro ancora? Wanda vorrebbe, io le dico “Facciamo crescere questi e poi godiamoci un po’ la vita noi”. Chi “vincerà”? Boh…“.

TATUAGGI

Non so quanti ne ho, ma so che non ce n’è uno, neanche uno, che non mi piaccia moltissimo ­ me li guardo spesso, sa? ­ e che non abbia un significato ben preciso. E’ la mia vita sul mio corpo e ce l’ho disegnata io: i miei tatuaggi non solo li decido, ma li penso, li studio, li schizzo ­ per far capire come lo voglio ­ li correggo. Poi l’ago ce lo mette il mio amico Artur, è venuto a Milano anche sabato e mi ha “sistemato” un po’ quelli sul braccio. Me li ha fatti praticamente tutti lui a parte il primo (e pochi altri): quello me lo sono regalato a 14 anni in un negozio di Barcellona, il mio nome sul bicipite destro. L’ho fatto perché il mio nome mi piace, l’ha scelto nonna Tati e sono contento che abbia insistito perché io fossi Mauro, visto che quando ero nella pancia della mamma dovevo essere Lucas, avevano deciso così. Quando smetterò? Ogni tanto ci penso, anche perché adesso sento più dolore di una volta, ma poi c’è sempre un momento o un pensiero che mi colpisce, e allora vado avanti. E se vorranno farseli anche i miei figli? Liberi, ma non a 14 anni come me: il primo a 18, come minimo“.

MOMENTO BUIO

Ha idea di cosa significa per un calciatore avere un pallone fra i piedi e non riuscire a calciarlo ad un metro, per il dolore? La pubalgia è così: sai come viene, non sai quando se ne andrà. A me venne per colpa di una serie di tiri a fine allenamento, mi scivolò il piede e mi stirai un muscolo intercostale: iniziai a dormire male, a camminare male, si infiammò il pube e come se non bastasse mi toccava anche sentire cazzate tipo che tutto dipendeva dal troppo sesso con Wanda. Mi sarei dovuto fermare subito ma a me non piace star fermo, e figuriamoci arrivare alla Pinetina presto solo per fare massaggi, punture, risonanze: non sono tipo da depressione, ma accorgermi di non riuscire a dare nulla a tifosi che quell’estate mi avevano accolto come un re non era un bel pensiero. Molto peggio che decidere di lasciare il Barcellona: anche oggi, anche pensando a che squadra è, non lo vedo come chissà quale buco nero nella mia carriera. Non sono l’unico che se n’è andato da lì, non è mica la fine del mondo: o perlomeno, io me ne sono andato con un sorriso. Come sempre, quando sono io che scelgo di fare una cosa“.

ADOLESCENZA

Quante volte l’ho sentito dire: “Se non fosse stato per il calcio, sarei diventato un delinquente”. Io non lo sono diventato perché ci sono stati i miei genitori, Juanchi che è il mio migliore amico e José Alberto Cordoba, il mio primo allenatore: un uomo umile e dal cuore enorme che però in campo mi chiedeva sempre un po’ di più, e se mi avesse trattato come tutti gli altri bambini chissà se sarei stato quello che sono. E poi perché sono sempre stato furbo e dunque ho frequentato quelli più grandi di me. Come Juanchi: classe ‘88, appunto. Certo, il calcio mi riempiva giornate che vuote non erano mai visto il mio iperattivismo, come da soprannome: cañito, più o meno razzo, o fuoco artificiale. Non avevamo molto altro, mica come i ragazzini di oggi che vivono con l’iphone e l’ipad e io lo so bene: Francesca ha un anno e mezzo e lo sa già accendere da sola. Ma non sarebbe stato il calcio a salvarmi se non avessi voluto vedere in faccia la possibile cattiva strada e non avessi capito da solo che non mi interessava prenderla. A Ceramica ­ la mia villa nel barrio Alberdi ­ a 7 anni conoscevo tutti, anche quelli che vendevano droga e per la droga ammazzavano, e tutti conoscevano me. Quando andavamo a scuola in bici la mamma preferiva fare il giro largo, e io “No dai, passiamo dentro la villa” e mi salutavano tutti, “Ehi Mauro”, anche i peggiori. Juanchi li vede, e vede pistole e droga, da trent’anni, ma continua ad alzarsi ogni mattina alle sei per andare a lavorare: alla fine i delinquenti quasi sempre sono quelli che vogliono esserlo, o quelli che non hanno voglia di lavorare“.

IDOLO

Quello che da bambino vedi come idolo, se non è un’infatuazione e basta poi diventa modello: per me, si sa, Gabriel Batistuta. La prima “visione” fu davanti alla tv, una sua partita con la Seleccion. La prima mania, i pupetti che regalavano se compravi la Coca Cola: avevo la collezione completa ma lui rispetto agli altri stava da un’altra parte, al sicuro, intoccabile. La prima emozione grazie alla rivista “El Grafico”, a quei tempi andavano in giro per i club e regalavano ai giovani calciatori una copertina finta con un fotomontaggio, e ovviamente avevo scelto di avere Bati vicino. E pensare che poi non c’è stata occasione di avvicinarlo davvero: mai riuscito a conoscerlo di persona, magari un giorno. In compenso ho sempre sperato di riuscire a rubargli il segreto di quella forza che metteva quando giocava, ti sembrava che mangiasse il campo. Io lo so che adesso sto dall’altra parte, perché ci sono bambini o ragazzini che vorrebbero essere Icardi, ma non è che ogni volta sto lì a pensare: “Mauro, occhio che ti guardano”. Anche perché credo di essere abbastanza intelligente da sapere cosa di me “si vede bene” e cosa invece “si vede male”.

 

 

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