Rotta verso il derby d’Italia, la chiave emotiva: una partita che si gioca anche di testa

Impatto, reazione, freddezza, attributi. Una partita può prendere mille risvolti, può iniziare male e finire peggio, nascere alla grande e terminare nello sconcerto. Per evitare ciò, è fondamentale che tutti i giocatori in campo siano sul pezzo dal primo al novantesimo minuto. Disattenzioni, errori, amnesie e cali di concentrazione sono eventualità che possono capitare, ma sconsigliabili e non molto tollerabili a determinati livelli. Le scuse possono anche valere, a patto che qualcuno sia ben disposto ad ascoltarle. Per affrontare una partita come Inter-Juventus bisogna essere a posto con la testa, concentrarsi sul solo obiettivo di fare bene e dare tutto. Se certi incontri non fanno accendere la scintilla, non creano quel pizzico di emozione in più, significa il calciatore non è il mestiere migliore che si possa aver scelto. L’atmosfera presente allo stadio galvanizzerà i giocatori, li caricherà, forse intimorirà altri, ma è proprio questa la sottile e labile differenza tra l’anonimato e la leggenda, tra la normalità e l’eccezionalità. 

Innanzitutto, si deve scendere in campo con la giusta personalità e la dovuta concentrazione. Un errore stile Handanovic-Fiorentina rischia di compromettere il lavoro di un’intera settimana, nonché la consapevolezza di un gruppo. Il passaggio al punto giusto, lo stop incollato al piede, la linea difensiva alta quanto basta. Piccole cose che aiutano a prendere confidenza con la sfida, ad accrescere la fiducia, ad essere mentalmente competitivi. Si può soffrire, anche barcollare, ma non mollare e perdere la presa. La speranza è che l’Inter entri in campo decisa ad aggredire, con più coscienza che spavalderia. Il fianco non va concesso troppo presto. 

Si deve saper leggere il momento, bisogna convivere col risultato del momento. Andare in vantaggio è il massimo, ma si deve avere poi la forza e la capacità di gestire, si deve mantenere l’equilibrio tra la voglia di un altro goal e la necessità di non subirlo. Si può anche andare in svantaggio, ma a patto che la reazione nervosa sia consona a una compagine che vuole competere in alto e a lungo. La capacità di reazione a una difficoltà è il vero termometro di una squadra, soprattutto di una squadra nuova, rimodellata, che si sta scoprendo pian piano. Non è forte chi non cade, ma chi ha poi la forza per rialzarsi. Una delle frasi più trite del nostro tempo, ma sempre veritiera e calzante.

Poi ci sono gli attimi, le circostanze del momento, quelle in cui la mente ha un nanosecondo per decidere cosa è meglio fare. A chi lanciare il pallone in contropiede, se seguire l’avversario nel taglio centrale, quanto stringere la diagonale, quanto conviene l’anticipo, se tirare di collo o di punta. Soluzioni che non vanno pensate con troppo anticipo, ma vagliate al momento, imponderabili, estemporanee, decisive singolarmente e nel loro insieme.

Noi siamo alle prese con il compito in classe, vincere come segnale di forza, per dimostrare di esserci davvero e di non essere un fuoco di paglia, per dare una spallata alla saccente prima della classe, che tutti ancora guardano dal basso in alto nonostante la classifica dica altro. Loro hanno già sbagliato tanto, non possono permettersi passi falsi ulteriori e sanno che la scusa del campionato lungo non può durare per sempre. Per carità, ottobre è lontanissimo da maggio, ma voi ce la vedete una squadra che perde 4 delle prime 8 partite a vincere uno scudetto? Dei giocatori alle prese con la terza sconfitta in altrettanti big match possono guardarsi ancora allo specchio con la consapevolezza di essere ancora i migliori? Crediamo di no, perciò si deve capire, innanzitutto, che questa è un’occasione che non vale la pena gettare alle ortiche. 

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