Top&Flop dell’era Moratti: GLI ATTACCANTI

Succede tutto in un attimo: le lancette dell’orologio si fermano, gli occhi si alzano per seguire l’imprevedibile traiettoria del pallone, mentre ogni movimento in campo sembra svolgersi al rallentatore. L’attesa cresce, il cuore inizia a palpitare nel momento in cui la sfera si avvicina sempre più lentamente alla porta, battezzando proprio quell’angolo dove il portiere non può arrivare se non violando diverse leggi della fisica. La rete si gonfia, il tempo ricomincia a scorrere normalmente ed il silenzio è rotto da un’esultanza, i cui decibel sono sovrastati soltanto dalla festa e dai cori sugli spalti. Un sogno racchiuso in un gol.

E fare gol è proprio il mestiere dell’attaccante. Un compito che implica la capacità di vedere e sentire la porta anche ad occhi bendati, di essere più veloci del difensore nei piedi e nella testa, di sorreggere il reparto offensivo e dialogare con i compagni al fine di far salire la squadra.

Durante i diciotto anni di gestione morattiana, questa posizione è stata ricoperta da alcuni tra i più grandi centravanti dell’età moderna. Nonostante sia difficile stilare una classifica per l’abbondanza e la qualità che ha contraddistinto tale ruolo, proveremo a ripercorrere le gesta dei più meritevoli e le disavventure di chi non è riuscito a mettersi in luce con i colori nerazzurri.

Tambureggiante come il suono del suo soprannome. Stiamo parlando di “bum bum” Zamorano, un cileno naturalizzato interista. Il ritratto di un vero e proprio predatore dell’area di rigore: forza, grinta da vendere e un colpo di testa infallibile come il proiettile di un cecchino addestrato. Bomber di razza a tal punto da ricorrere ad una simpatica trovata (la scritta 1+8 sulla maglia ndr), pur di cucirsi addosso il numero 9, destinato al neo arrivato Ronaldo.

Due attaccanti dai destini incrociati, protagonisti dell’irrefrenabile ed insolito corso degli eventi. Ibrahimovic ed Eto’o: caratteristiche diverse, ma la stessa voglia di vincere e la naturale tendenza ad essere decisivi per le sorti di un match o di un’intera stagione. Lo svedese rappresenta il mix perfetto di potenza fisica, tecnica e cinismo. Un indole da vero trascinatore, della quale è simbolo inequivocabile la determinazione mostrata nell’indimenticabile trasferta di Parma, durante la quale entra e con una doppietta porta i nerazzurri alla conquista del sedicesimo tricolore, sbloccando una partita che si dirigeva verso un tragico epilogo. Merita per questo e tanto altro un posto d’onore nella hall of fame dell’Inter, nonostante non sia mai stata una bandiera e abbia preferito giocare in tutte le squadre per cui “ha fatto il tifo da bambino”.

Il camerunense è arrivato alla corte di Mou proprio grazie al sacrificio del gigante di Malmo, desideroso di vincere la Champions League e, perché no, anche un paio di palloni d’oro con la maglia blaugrana. Ma il fato è beffardo, perché sarà il “Re Leone” ad alzare la Coppa e ad entrare di diritto tra i protagonisti delle pagine più belle della storia nerazzurra. Un ruggito da tramandare ai posteri insieme all’immagine di un attaccante disposto a correre instancabilmente lungo la fascia per il bene della propria squadra.

Rinvio di Julio Cesar, sul quale si fionda di testa Milito. La palla arriva a Sneijder che serve ancora l’argentino. Implacabile, l’ex Genoa non lascia scampo a Butt e firma il gol del vantaggio. Ancora il “Principe”, riceve il pallone da Eto’o e si invola verso la porta del Bayern. Una finta, poi un’altra per disorientare Badstuber e, ancora una volta, infilza l’estremo difensore con un preciso piatto destro. Il ricordo più vivido, l’emozione più grande, l’eternità in un attimo. Diego Milito si sarebbe meritato il secondo posto della nostra classifica e l’infinita riconoscenza del mondo interista, anche se avesse segnato soltanto queste due reti negli ultimi cinque anni. Non è stato così, visto che ha posto il suo sigillo sul campionato e sulla Coppa Italia in una stagione da incorniciare. Poi tanta sfortuna e diversi infortuni che ne hanno pregiudicato il rendimento, ma nonostante ciò il regno del “Principe” è stato prospero e senza eguali ed il suo nome rimarrà impresso a fuoco nella memoria dei suoi sudditi.

Sul gradino più alto del podio sale Ronaldo Luìs Nazàrio De Lima, o più semplicemente il “Fenomeno”. Una posizione dalla quale poter guardare dall’alto verso il basso tutti gli altri, come era solito fare anche sul rettangolo verde. Una finta ubriacante con la quale comandare a bacchetta i propri avversari ed una classe così pura e cristallina da meritarsi un posto tra i patrimoni dell’umanità gestiti dall’Unesco. Così veloce da anticipare con i movimenti l’intenzione stessa di eseguirli, così spettacolare da portarci a rivedere infinite volte le immagini delle sue giocate come fosse una dipendenza della quale è impossibile fare a meno.

Una menzione speciale a Crespo e Cruz, mentre con convinzione escludiamo dai top dell’era morattiana Christian Vieri, non tanto per le prodezze sul campo da gioco, ma per l’ingratitudine e lo stile discutibile con i quali ha sporcato il ricordo delle sue prestazioni. Con dispiacere, invece, non rientra tra i migliori attaccanti Adriano, forte nelle gambe, ma debole nella tempra.

La lista dei flop ricomprende diversi nomi, tra i quali risalta quello di Lampros Choutos, che vanta una presenza e zero gol con la maglia dell’Inter. Una carriera da girovago, costellata di esperienze della durata di un solo anno (chiedetevi il perché). Il greco ha un’attenuante: nessuno si aspettava nulla dal suo arrivo e lui non ha voluto disattendere le aspettative. Discorsi differenti per Suazo, protagonista di grandi stagioni al Cagliari, e Forlan, arma letale ai tempi dell’Atletico Madrid e decisivo come un passaggio di Vampeta o un anticipo di Domoraud durante l’esperienza nerazzurra.

Tra ricordi di campioni e grandi giocate e immagini che non avremmo mai voluto vedere, la sintesi perfetta dell’era morattiana.

 

 

 

 

 

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