Renzo Ulivieri racconta Walter Mazzarri

Uno dei più bravi allenatori italiani, Renzo Ulivieri, ha rilasciato una lunghissima intervista alla Gazzetta dello Sport odierna, dove racconta una vita in panchina trascorsa con Walter Mazzarri, suo vice allenatore che poi ha spiccato meritevolmente il volo.

“Lo so che lui ha detto così, ma non è vero che deve tutto a me, a Renzo Ulivieri. A parte che in questo mestiere nessuno è allievo di qualcun altro, se Walter Mazzarri mi doveva qualcosa, gliel’ho già fatto “pagare” nell’estate del ‘90. Era appena stato mio giocatore a Modena: con lui trequartista volevo fare il 4-3-1-2, ma quell’anno era stato quasi sempre infortunato. Caviglia, un trauma cerebrale, addirittura dopo un intervento ai denti un’emorragia notturna in bocca che un altro po’ ci resta: mi toccò cambiare modulo e far giocare Nitti, quello che oggi gli fa da osservatore. A fine campionato gli telefono: “Con tutto quello che mi sei costato e non mi hai reso, me lo offri almeno un pranzo a San Vincenzo?”. Volevo comperare una casa all’Elba e sapevo di potermi fidare dei suoi consigli: giocava a calcio ma era un buon uomo di affari, aveva la vista lunga. Anzi: a pensarci bene, se avessi fatto gestire a lui i miei soldi oggi sarei ricco”.

“Non mi ricordo se è stato quel giorno, ma un giorno gli ho detto: “Cosa vuoi fare da grande? Se quando smetti pensi di voler restare nel calcio, parliamone”. L’avevo studiato, era un calciatore anomalo: ragionava calcio con lo sguardo già sulla squadra, viveva lo spogliatoio non con distacco, ma da uomo “grande”. E poi chiedeva, chiedeva, Dio bono quanto chiedeva: in pochi avevamo iniziato a giocare a zona – noi, la Lucchese di Orrico, il Carpi di Tomeazzi – e lui voleva sapere tutto su questa novità; quando gli ho detto che lo volevo trequartista, mi ha fatto domande per due giorni. Un giorno, ancora a San Vincenzo, qualche anno dopo, ci siamo messi a parlare di calcio e siamo andati avanti per 12 ore filate”.

“Aveva già iniziato a farmi da osservatore, ai tempi di Bologna: era bravissimo, perché coglieva l’essenza delle cose e sapeva scriverla. I giornalisti nella conferenza della vigilia mi chiedevano che tipo di partita sarebbe stata e rispondevo sventolando le sue relazioni: “Chiedete a Mazzarri, decide lui come si gioca”. Per lui litigai anche, e fu l’unica volta, con Oriali: continuava a spedirlo in Argentina a vedere giocatori, ma a me serviva che andasse a studiare le nostre avversarie. Scriveva per me, ma era come se lo facesse anche per se stesso ed era meticoloso al limite del palloso, e io che calcisticamente parlando do del palloso a qualcuno è tutto dire”.

“La meticolosità “sana”, quella che fa la differenza, si vede quando fai un altro mestiere e io capii che Mazzarri sarebbe stato un buon allenatore non per le relazioni che mi scriveva, ma quando accettò di fare per me il preparatore dei portieri, a Napoli: Buso non poteva seguirmi, ma gli fu buon maestro e per Walter fu importante anche quella esperienza così diversa. Il mio vice era Montefusco, ma era come se ne avessi due: io e lui parlavamo in continuazione, mi dava suggerimenti soprattutto sulla gestione dei giocatori, coglieva cose di quanto succedeva nello spogliatoio con una percezione molto particolare. Capitava di avere punti di vista diversi, certo: lui amava ragionare sulle cose, metterci del suo, non era passivo. Però era uno che sapeva stare al suo posto: mi dava del lei e mi dà del lei tuttora. Gliel’ho detto mille volte, “Non è ora che mi dai del tu?”, ma continua a rispondermi che è una cosa che non gli riesce”.

“Più di una volta gli ho detto anche: “Walter, tu stai sulle palle praticamente a tutti gli allenatori e più o meno a tutti gli arbitri: vedi di fare qualcosa”. “Vede mister – mi risponde sempre – il mio mestiere non è stare simpatico, ma fare punti e andare bene ai miei giocatori. E andare bene vuol dire avere un rapporto serio, mica stargli simpatico”. Che poi lui sarebbe anche simpatico: non come me, a battute vinco ancora 10-0, ma fuori dal campo ci si può anche ridere. In campo molto meno, diciamo che sul lavoro è spontaneamente antipatico. “Mazzarri è fatto così”, si dice ormai. Esatto: all’inizio della carriera forse si mascherava un po’, ma lui è fatto così, esattamente come lo si vede oggi. Però i giocatori li sa conquistare, perché ha il senso del rapporto individuale, oltre che di squadra. Ecco, forse questo l’ha preso da me, che ho sempre considerato vangelo quella frase di Don Milani: non c’è peggiore ingiustizia quanto far parti uguali fra disuguali. Ci sono regole di gruppo, ma poi i rapporti sono con gli individui e ai miei giocatori l’ho sempre detto: vi tratterò ognuno in modo diverso dagli altri”.

«Credo che Mazzarri sia un buon psicologo, anche perché lavora molto sul rapporto, “studia” il confronto con i suoi giocatori, non ci arriva mai impreparato. Però, se devo dire se è più psicologo o più tattico, non ho dubbi: lui è un tattico esagerato , la partita la gioca anche lui, gli piace infilarcisi dentro, determinarla. E c’è un errore di fondo: è stato fatto passare per un maestro delle ripartenze, e in effetti le sue sono micidiali, soprattutto quelle medie da centrocampo, ma è riduttivo pensare che Mazzarri sia tutto qui, perché il suo calcio è fatto anche di costruzione, di manovra. E di difesa a tre, certo. Anche ultimamente gli ho detto “Ma perché non provi a passare a quattro?”. Mi ha risposto senza dubbi: ho questa sicurezza, mi serve a dare sicurezze. Forse un po’ l’ho contagiato: non nelle scaramanzie, ognuno lo è dentro e a modo suo, ma in questo magari sì. Io li chiamavo automatismi, e facevo diventare matti i giocatori; lui li chiama codici, ma ha capito che certe cose non vanno esasperate: piuttosto convince i giocatori e i giocatori a quel punto ci stanno”.

“Ciò non toglie che pensa calcio 24 ore al giorno: non è vero che tutti gli allenatori sono così, ma io ne so qualcosa. Un giorno, allenavo a Vicenza, mi chiama mia moglie per dirmi che le figlie hanno 40 di febbre. Sa cosa le ho risposto? “Ma io ho Sabatini (l’attuale d.s. della Roma) che ha 37, non posso muovermi”. Non potevo fare diversamente, mi sentivo male e credo che per lui sia più o meno lo stesso: in fondo, siamo di San Miniato e di San Vincenzo, uno di terra e uno di mare, ma veniamo da zone simili, operose, dove conta il senso dell’impegno, dove se vuoi una cosa te la devi sudare, e lo dicono le nostre gavette. E poi, non so, lui che da giocatore sembrava potesse diventare il nuovo Antognoni e poi non ci riuscì, forse in questo modo di lavorare nasconde anche un senso di rivalsa”.

“Non abbiamo mai litigato davvero, ci sono rimasto male solo una volta, quando andai a Napoli con i ragazzi del mio corso per allenatori Uefa Pro: volevo fargli vedere un suo allenamento e lui fece solo atletica. Walter è così, anche un po’ geloso delle sue cose. Infatti quando l’altro giorno (lunedì, ndr) è venuto a Coverciano per una lezione e ha parlato diffusamente del lavoro che sta facendo adesso, Lucarelli, che lo conosce bene mi ha detto: “Boia deh , ha parlato senza segreti: vuol dire che tempo un mese l’Inter cambia modo di giocare, lo ha già deciso” . Io invece ho pensato: “Mi sembra un altro, è molto più sicuro di sé”. Ora gli manca solo una cosa: prima della fine dei miei giorni, in un’intervista dopo una sconfitta, vorrei sentirgli dire “Abbiamo perso perché gli altri sono stati più bravi di noi”. Lo so bene che lo fa per difendere la squadra, è la sua ossessione: ma quel giorno, lo giuro, stappo una bottiglia di champagne”.

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